Riflessioni sull’acquisto degli agnelli

Lo scorso 4 marzo è stato pubblicato su Asinus Novus un articolo di Barbara Balsamo a proposito della pratica, che si va diffondendo negli ultimi anni, di acquistare agnelli al fine di salvarli dalla imminente macellazione.

Come redazione di Musi e Muse, abbiamo espresso alcune riflessioni critiche sulla posizione espressa da tale articolo. Con l’intento di sollecitare un dibattito allargato su un argomento molto controverso, le riproponiamo quì seguite dai primi commenti ricevuti.


Riflessioni sull’acquisto degli agnelli

L’articolo di Barbara Balsamo esprime un durissimo giudizio verso quegli animalisti che acquistano agnelli o altri animali da reddito. Questa presa di posizione, seppur comprensibile nelle sue motivazioni, non lascia forse trasparire una grave incomprensione verso le pratiche di volontariato e più generalmente verso il rapporto con gli animali che è presente in alcune parti della società?

L’autrice dell’articolo fa riferimento a singoli o gruppi che raccolgono fondi per acquistare agnelli, al fine di sottrarli alla macellazione. Ora, poiché tali iniziative vengono distinte dai «riscatti aperti» di animali, si potrebbe credere che l’articolista stia suggerendo che si tratti di vere e proprie truffe; nel qual caso esse andrebbero apertamente denunciate e ostacolate. Tuttavia il tipo di critiche che vengono mosse non sembrano indicare tale ipotesi. Il bersaglio sembra piuttosto essere l’attività di quei volontari «animalisti» «costole del sistema», come li definisce l’autrice dell’articolo, che sempre più spesso negli ultimi anni si occupano di aiutare e trovare una nuova sistemazione non solo per cani e gatti, ma anche per gli animali da reddito o da laboratorio.

Partecipando da tempo a tali iniziative, vorremmo chiarire quale sia l’effettiva attività di questi animalisti. Di solito si tratta di animali provenienti da sequestri di piccole attività o di privati, oppure di animali che bisogna acquistare dal loro proprietario: spesso perché provenienti da attività che stanno chiudendo e si liberano degli animali cedendoli ai macelli, o perché invendibili per qualche difetto, o perché sono animali che, per qualche ragione, chi propone il riscatto conosce ed ha visto, e con cui ha instaurato un minimo di rapporto. Ma questa è solo la prima parte del «salvataggio»; la più difficile ed importante è quella di trovare, per gli animali così riscattati (questo il termine che viene usato), una nuova sistemazione in situazioni dove non solo non vengano mangiati, ma nemmeno sfruttati (si fa sempre riferimento in tali appelli all’obbligo di sterilizzare gli animali). Tali situazioni vengono poi controllate nel tempo.

Se questa è l’effettiva pratica degli animalisti, ciò che se ne ricava non è assolutamente una «mercificazione» degli animali, ma anzi una sensibilità verso la loro individualità, e il comprarli viene visto come un’assurdità purtroppo inevitabile talvolta, visto che non si può trovare altro modo per salvare loro la vita, proprio la loro, che si svolge qui ed ora. Non bisognerebbe confondere i termini di una situazione che comporta diversi e conflittuali punti di vista: se un animale è merce per chi lo vende, per noi è un individuo con una storia e una personalità, un amico con cui abbiamo legami affettivi.

Pensiamo all’opera di Jill Robinson in favore degli «Orsi della luna». È anche quella un forma di «qualunquismo», di «messaggio specista per cui la vita è mercificabile»?

Non solo: si sollecita così la creazione e l’incrementano di quelle situazioni di convivenza dove gli animali sono persone, si suppone insomma che tali realtà sono e saranno possibili (senza credere che questo mondo sia tutto un orrore).

Consideriamo infine l’idea espressa dall’articolo secondo cui queste iniziative finiscono con l’alimentare, necessariamente, la produzione di animali da reddito. Ma giustamente nessun animalista pensa che queste azioni di solidarietà possano in qualche modo avere un qualsiasi impatto economico, vista l’esiguità di tali «salvataggi» evidentemente individuali. Tuttavia, se dal punto di vista del sistema economico queste iniziative non hanno alcun peso, questo non significa che siano ininfluenti o peggio che «stiano annientando la possibilità che queste vite possano essere davvero liberate».

Per concludere, quanto espresso in questo articolo ci sembra un esempio di come le analisi in termini di «dominio» e di «abolizione del sistema» comportino il rischio di non saper leggere i fatti reali, portino ad ignorare o fraintendere fenomeni conflittuali e diffusi che si verificano in una società. Le teorie e le pratiche di un antispecismo propagandato come «unica alternativa vera» allo sfruttamento animale («seppur nel rispetto di tutti», si capisce!) sembrano trascurare proprio l’individualità degli animali (anche umani): l’elemento che dovrebbe invece essere il più importante, se davvero vogliamo considerarli come soggetti.


Commenti (torna su)

Marco Reggio (25 marzo 2013 alle 17:51)

La questione non è banale… Ragionando in astratto, sono portato a condividere quanto dice Barbara Balsamo, nel senso che l’acquisto non può essere indicato come una “via”, cioè come una strategia per abolire gli allevamenti, in sostanza. Però, è ovvio che quando ciò avviene, chi lo fa ci si trova e non può fare altro. Volendo cavillare, non si dovrebbe neppure usare l’ausilio delle pubbliche autorità per salvare degli animali laddove ci siano appigli legali, ma sarebbe folle non farlo soltanto perchè liberarli illegalmente è un messaggio più “educativo” per l’opinione pubblica (al contrario, esistono situazioni in cui è più incisivo agire ottenendo un sequestro che non liberando illegalmente degli animali, perchè si blocca più profondamente l’attività in questione). Credo che l’articolo di Barbara Balsamo si ponga però in una zona grigia, forse amplificata anche dalla confusione tipica dei sociali network. Mi riferisco ad appelli che girano su facebook, per raccolte fondi finalizzati a comprare (riscattare) schiavi animali. E’ chiaro che chi cerca di salvare questi animali fa quanto possibiel, anche scendendo a compromessi con dei principi teorici (quindi magari comprandoli), ma al tempo stesso fa un passettino in più, lanciando sottoscrizioni pubbliche, appelli, ecc.. In questo modo, anche se non indica una “via” in senso stretto, forse indirettamente la suggerisce, quindi si pone in modo un po’ ambiguo; per questo forse arrivano anche critiche così dure. Eppure io credo ci siano casi peggiori, da questo punto di vista, come quello del riscatto degli animali da laboratorio a fine vita (fine tortura), molto ben vista non a caso da diversi gruppi di sperimentatori: anche lì, è ovvio che di fronte ai singoli individui bisogna fare quanto possibile, ma bisogna stare attenti ai discorsi pubblici che su queste azioni, su questi accordi, vengono poi fatti, secondo me.


Danila Fanara (25 marzo 2013 alle 20:39)

non si comprano esseri viventi…………


Barbara Balsamo (25 marzo 2013 alle 22:09)

Potrebbe essere utile per capire meglio la mia posizione leggere anche questo articolo, sempre inerente allo stesso tema e che in realtà completa il primo http://artecologianimali.blogspot.com/2013/03/gli-allevatori-ringraziano-di-cuore-gli.html?spref=fb.

Come già cercato di ribadire in altre occasioni, la mia critica riguarda l’acquisto di agnelli (ma anche di altri animali da reddito) intesa come prassi collettiva, come iniziativa pubblica che va a determinare e legitimare una nuova modalità di concepire la liberazione animale in un contesto antispecista. La mia non vuole essere una critica, tantomeno un’accusa, a individuali e private iniziative, ma una riflessione su prassi pubbliche, collettive, e sociali che inevitabilmente incidono sull’approccio stesso che si vuole avere con lo specismo e che inquadrano in modo totalmente differente le battaglie che intendono abolire la pratica di sfruttamento il cui massimo esempio è l’allevamento. Non credo affatto che si tratti di massimalismo né condivido la convinzione che chi si oppone a una deriva consumistica della battaglia di liberazione animale non tenga conto né dei sentimenti né delle singole individualità. Considerare l’agnello, quel singolo agnello, come soggetto e rispettarlo non implica come conseguenza diretta il comprarlo. Le lotte di liberazione animale hanno bisogno di pratiche radicali contro ciò che è alla base dello sfruttamento animale, in questo caso gli allevamenti: se fosse questa dell’acquisto la modalità con cui l’antispecismo intende liberare gli animali dallo specismo cosa dovremmo fare? canalizzare le iniziative verso la compravendita di soggetti? sarebbe tentare di svuotare il mare con un cucchiaino sapendo che questi stessi allevamenti esistono solo e perchè sostenuti dagli acquisti. Prendo atto che moltissimi vegani hanno sostenuto e continuano a sostenere l’iniziativa contro la quale io personalmente mi sono “scagliata”. Ribadendo che veganismo e antispecismo, a mio parere, non sono la stessa cosa, e che si può benissimo essere vegani pur non essendo antispecisti, dovremmo definire meglio entro quali dinamiche ci stiamo confrontando. Il dibattito che sta nascendo attorno ai miei articoli, a partire dalle vostre osservazioni, sono certa servirà ad analizzare meglio queste nuove dinamiche. Spero inoltre che a questo confronto intervengano più attivisti poichè non vorrei rimanesse uno scambio di idee tra noi (seppur utile).


Barbara Balsamo (25 marzo 2013 alle 22:12)

leggo ora il commento di Marco Reggio che credo abbia capito il senso profondo della mia protesta. é proprio su questa zona grigia che dovremmo portare la riflessione.


Agnese Pignataro (26 marzo 2013 alle 01:52)

Salve Barbara,

leggendo il suo articolo e i suoi commenti mi vengono in mente alcune cose. La prima è che bisogna decidere se analizzare una pratica su un piano astratto e generale, o esaminare un caso contestualizzato. Mi pare che quello che lei scrive oscilli tra questi due piani che dovrebbero restare distinti, il che non giova alla chiarezza. Il nostro commento di redazione intendeva proporre una riflessione generale e non ha molto senso risponderci evocando le caratteristiche di una singola campagna. In particolare, non è dialetticamente corretto da parte sua avanzare come argomento a suo favore le opinoni politiche di un preciso individuo che organizza riscatti, come se questo bastasse per screditare l’idea stessa di riscatto.

Questo mi porta al secondo punto. Lei su facebook ha esposto le opinioni politiche dell’individuo in questione in un modo del tutto retorico:

«voi trovate l’iniziativa di quel signore, non vegano, non antispecista, fascista (a suo dire non mio) liberale berlusconiano (sempre a suo dire non mio) che crea una vera e propria campagna acquisti online una pratica antispecista che rientra in un sistema complesso!?!??!»

Una frase come questa rappresenta un ennesimo esempio di un fenomeno che osservo da tempo, che è quello di condannare le emozioni in quanto movente primitivo e grossolano di convinzione o di azione negli altri, e contemporaneamente farne uso in modo chiaramente retorico per manipolare le opinioni dei propri interlocutori. In altre parole: da una parte, dire che X, in quanto realtà a carattere emotivo, è sbagliata a priori; dall’altra, sostenere Y dicendo per esempio che chi non sostiene Y appartiene a una categoria esecrabile, e che quindi l’interlocutore, se non vuole che la sua immagine sociale venga sporcata per sempre, deve assolutamente convincersi a sostenere Y. Quindi non lavorando sul piano della dialettica, ma facendo leva sulla nostra umana paura di non essere accettati dai nostri simili. Chi è allora l’emotivo? Chi fa politica con la (cattiva) emotività?

Di qui mi collego al terzo punto. In tutti gli scritti «antispecisti», e quindi anche nei suoi, ritorna a tambur battente la questione se X, Y o Z debba o no essere considerato «antispecista». Il che, è facile capirlo, è ingranaggio essenziale della tattica di cui sopra: guai a chi non può essere considerato «antispecista», finirà nella spazzatura! Tale questione è diventata una specie di disputa teologica e, in quanto tale, non la trovo molto interessante. L’argomento secondo cui X sarebbe inaccettabile perché «non antispecista» non ha nessun potere dialettico per chi non riconosca l’autorità del mantra dell’«antispecismo».

Per abbandonare le questioni di forma ed entrare nel contenuto della questione: lei, insieme ad altri sostiene che i riscatti sono una pratica che non contribuisce alla fine dello specismo. Questo modo di impostare la questione esprime la convinzione che l’«antispecismo» consista in un processo di lotta contro un nemico preciso, che si concluderà attraverso un drammatico momento di rottura (la rivoluzione, ovviamente). È chiaro che si tratta di una concezione calcata sulla lotta di classe. Ora, c’è chi, come me, non ha la stessa visione né dello specismo né del superamento dello specismo, e crede che quel modello non sia adeguato a render conto neanche di altre oppressioni e di altri percorsi di liberazione (ho scritto qualcosina in merito quando ho esaminato le analogie tra specismo e patriarcato). Insomma, chi non segue quel modello non è necessariamente non-radicale, non-antispecista, e propenso a una «deriva consumistica della battaglia di liberazione animale» (come la chiama lei). Ha solo delle idee molto diverse dalle sue. E non si lascia spaventare dallo spauracchio dell’esclusione dal club.

Infine, sarà per deformazione professionale, ma tutto ciò che ho letto finora contro la pratica dei riscatti mi pare trasudare etica della giustizia fin nelle virgole. Cf. il commento lapidario di Danila Fanara qui sopra:

«non si comprano esseri viventi…………»

E così via: etica kantiana a gogo, niente speranza ai condannati a morte se questo significa derogare alla purezza del principio. O peggio: accettiamo il «sacrificio» di alcuni per la realizzazione di un bene maggiore, for a greater good, leggi: il trionfo dell’ideale antispecista. Non riesco a non provare brividi nel pensare a cosa ha portato nella storia questo tipo di radicalismo. Se questo significa essere radicali, a maggior ragione non rimpiango l’esclusione dal club. Lei ha scritto qui sopra:

«Considerare l’agnello, quel singolo agnello, come soggetto e rispettarlo non implica come conseguenza diretta il comprarlo.»

Io ribadisco invece: in un contesto particolare, considerare un singolo agnello come soggetto implica il salvargli la vita qualora si abbiano i mezzi per farlo. Questa è la convinzione su cui riposa il commento che Brunella Bucciarelli ha lasciato su facebook:

«è fondamentale sapere DOVE vengono sistemati questi agnelli, se c’è una rete di persone che può garantire loro una vita dignitosa».

In un contesto particolare, nella vita reale, l’incontro tra due individui allaccia un contatto in cui non è più questione di principi, ma di cosa quel preciso individuo rappresenta per l’altro preciso individuo, e reciprocamente, e non solo in termini di un astratto riconoscimento dell’esistenza, ma anche e soprattutto della sua preservazione, se essa è in gioco e se è in potere di una delle parti porre rimedio alla vulnerabilità dell’altra. È paradossale dover spiegare questo a chi si rifà ad un antispecismo che da anni ci martella sulla necessità di «superare Singer» e di leggere Derrida, Levinas (la cui filosofia, a mio modesto avviso, con gli animali non può avere molto a che fare) etc. etc. Se davvero si vuol superare Singer, si farebbe forse meglio a leggere le riflessioni delle donne sulla cura, sul care, sull’interdipendenza e su come questa si realizza attraverso un lavoro di ascolto e di mediazione su un piano di reciprocità. Allora l’antispecismo, e al suo interno la questione dei riscatti, apparirebbero probabilmente sotto una luce diversa.


Barbara Balsamo (26 marzo 2013 alle 08:46)

Non mi pare di aver mai fatto riferimento a principi di alcun tipo ma ho parlato di antispecismo. il resto delle deduzioni se le fa lei. (vedo che anche questa distanza di presa di posizione dando del lei è significativa).

Per abbandonare le questioni di forma ed entrare nel contenuto della questione: lei, insieme ad altri sostiene che i riscatti sono una pratica che non contribuisce alla fine dello specismo. Questo modo di impostare la questione esprime la convinzione che l’«antispecismo» consista in un processo di lotta contro un nemico preciso, che si concluderà attraverso un drammatico momento di rottura (la rivoluzione, ovviamente). È chiaro che si tratta di una concezione calcata sulla lotta di classe. Ora, c’è chi, come me, non ha la stessa visione né dello specismo né del superamento dello specismo, e crede che quel modello non sia adeguato a render conto neanche di altre oppressioni e di altri percorsi di liberazione (ho scritto qualcosina in merito quando ho esaminato le analogie tra specismo e patriarcato). Insomma, chi non segue quel modello non è necessariamente non-radicale, non-antispecista, e propenso a una «deriva consumistica della battaglia di liberazione animale» (come la chiama lei). Ha solo delle idee molto diverse dalle sue

intanto le deduzioni logiche in questo apssaggio sono del tutto arbitrarie, ma voelndo rispondere, parliamo di lotta di classe? dovremmo ridefinire anche questo concetto, sicuramente lo sfruttamento animale e gli allevamenti sono strutturati secondo una logica economica oltre che culturale. non vedo come si possa dissentire da questa evidenza tangibile. per me l’allevatore non è un nemico, mai detto, per me è colui che esercita economicamente il dominio degli animali. in una società che si fonda su meccanismi di questo genere credo non ci sia molto da scegliere come strategie di lotta. non necessariamente ci si deve porre in antetisi ma non per per questo collaborare e farsi “soci”, condividere con loro un meccanismo vendita-acquisto: a che pro? pensate che all’allevatore importi chi è il suo acquirente?

tornando al mio discorso iniziale sono partita da un caso specifico per mostrare quello che a me pare un fenomeno in aumento, dunque dal particolare al generale, poichè di signori come quello ne stanno venendo fuori molti. appunto quello che temevo. sta diventando “normale” ora dedicarsi all’acquisto di animali per salvarli. stiamo andando in questa direzione, e questa per me è una deriva. i dettagli circa il signore , che per inciso, violentemente mi insulta sul suo evento senza che io possa difendermi poichè bannata, e bannata poichè dissentivo, sono, non per attaccare come dice lei una categoria politica, sbaglia proprio soggetto se vuole scendere su questa questione, ma perchè un liberale convinto vede nel commercio una soluzione positiva ai problemi e mi sembra che questo signore sia molto coerente e credo che confermi anche le mie affermazioni circa la deriva! non vegano poichè da la percezione che il problema che si pone non sia globale ma solo relativo a una specie, e siamo di nuovo alla questione della moda. credo inoltre che essendo questo un blog pubblico, come asinus novus, essendo le mie note (ormai eliminate da fb perchè segnalata per quello che scrivevo!) il signore che mi è servito come esempio di una problematica generale ha, da parte mia avuto, tutta la possibilità di argomentare, cosa che invece non è reciproca.

ancora una volta vedo comunque che si è distorto il discorso che ho voluto affrontare con i miei articoli. gradirei perrtanto che si tornasse alla questione che mi preme: le campagne acquisti di animali come nuova prassi antispecista?

Quello che leggo io dal suo commento è prevenzione circa alcuni assunti e pensieri che non le consentono di leggere quello che io sono e dico. non attribuisca a me quello che vorrebbe attribuire ad altri. non siamo blocchi di antispecisti gli uni contro gli altri. sono molto pragmatica, ancora non ho capito qual’è la vostra idea di liberazione animale e quale la vostra strategia antispecista legata agli acquisti sistematici.


Ignazio Avulso (26 marzo 2013 alle 09:37)

Mi chiedo quanto sarebbe durato lo schiavismo se gli abolizionisti americani, invece di costituirsi in movimento d’opinione prima e di scatenare una guerra poi, fossero andati in giro per le fattorie della Louisiana, dell’Alabama o del Mississippi a comperare singoli individui.


Michela Pezzarini (26 marzo alle 11:52)

Rispondo a Ignazio: la pratica tanto disdicevole di acquistare gli schiavi per rendere loro la libertà non ha certo cambiato il corso della storia di una nazione – o federazione di nazioni – ma di certo ha cambiato la vita di molti individui. Oltretutto pare che uno dei fattori determinanti per l’abolizione della schiavitù negli USA sia stato il fatto che “mantenere gli schiavi” fosse più oneroso che pagare braccia di salariati usa e getta e facilmente rimpiazzabili del cui stato di salute e alimentazione ci si poteva bellamente e completamente disinteressare. Molti degli schiavi liberi/liberati infatti iniziarono a vivere in condizioni di sottoproletariato prestando manodopera a pagamento (irrisorio).


Michela Pettorali (26 marzo alle 13:03)

Sicuramente la questione non è banale e pone di fronte ad un problema intimo di coscienza: da una parte il grande disegno e la coerenza nel portare avanti un’idea, sacrosanta, che la vita non si mercifica, dall’altra la vita di 50 esseri senzienti che hanno i nostri stessi sentimenti, le nostre stesse paure. Pur essendo, in linea generale e sopratutto mantenendo la dovuta freddezza, d’accordo a non alimentare la vendita, interrogandomi intimamente, credo che 50 agnelli, come in questo caso o anche di più, (perchè ci sono altre iniziative identiche a quella segnalata) non nuocciono alla causa, all’idea generale e al principio della non mercificazione. Quei 50 agnelli, non hanno dato lavoro ai macelli, quei 50 agnelli sono comunque costati di meno e il pastore anche se poco, ma un pò ci ha rimesso. Considerato poi, che quest’anno comunque la richiesta è minore, quelle 50 vite sono 50 vite salvate. Il pastore da cui sono state comprate, sa benissimo che le hanno comprate persone che volevano salvarli dal macello, sa benissimo che la richiesta è in diminuzione e comunque il prossimo anno dovra stare molto attento (lui e tutti gli allevamenti, visto che c’è calo nazionale di richiesta). In definitiva, non mi sento di criticare aspramente questa pratica, anche perchè mi chiedo se ci fossero stati 50 bambini da salvare, le remore sarebbero state così forti? Mi chiedo anche se veramente, gli antischiavisti, non abbiano mai comprato nessun individuo per dargli la libertà.


Barbara Balsamo (26 marzo alle 15:53)

Gentile Agnese,

dopo aver risposto al commento che Lei ha scritto, sono andata a leggere alcuni suoi interessantissimi articoli, in particolare quelli sull’etica del care. Mi sfugge però in cosa consista la differenza sostanziale tra le mie posizioni e le Sue e soprattutto come l’etica del care possa identificarsi con gli acquisti di animali in modo strutturato sistematico e collettivo. Mi sfugge come si possa pensare che l’antispecismo politico possa cozzare con l’etica del care e come questo possa sortire strategie di azione così distanti. In senso fattuale e pratico come concepisce la realtà sociale e lo sfruttamento animale chi si occupa di etica del care? come si inserisce la questione della “moda” delle campagne di acquisti”? come forma di estrema sensibilità dei singoli? Questo punto del dibattito mi sembra molto importante e mi piacerebbe che venisse analizzato a partire da chi ne sa più di me.


4 commenti on “Riflessioni sull’acquisto degli agnelli”

  1. Michela Pezzarini ha detto:

    Ciao Barbara,
    prima che Agnese ci risponda più per esteso, vorrei ringraziare chi ha partecipato alla discussione. Mi sarebbe piaciuto che anche chi ha altre opinioni e, soprattutto, chi ha partecipato in prima persona al riscatto degli agnelli avesse fatto sentire la sua voce. Prima di addentrarci a discutere sull’etica del care – o della cura, come è stata precedentemente introdotta in Italia in ambito femminista – vorrei chiarire che questo non è l’obiettivo che ci prefiggevamo con questa discussione: infatti ritererrei più opportuno ricordare che la rivista Musi e Muse si prefigge di introdurre, sviluppare e approfondire l’argomento a lungo termine, partendo dalla pubblicazioni di testi ancora non disponibili al pubblico italiano e che contribuiranno a impostare il discorso in modo sostanziale.
    Anche io sto approfondendo da qualche tempo l’approccio del care, che non è sintetizzabile in un paragrafo: direi però che alcuni elementi importanti sono certamente la contestualizzazione del caso su cui si dovrà operare la scelta etica insieme alla valutazione dei vari aspetti degli scambi affettivi , di relazioni che si possono avere con individui (animali e non ) a noi più o meno vicini. Al posto di una regola astratta e razionale che vale sempre e per tutti, quello del care – insieme all’ecofemminismo – è un approccio che includa anche emotività, scambi affettivi, interrelazioni. Da cui una possibile incompatibilità con assiomi e progetti di liberazione basati su dogmatismi che in questo caso (acquisto-riscatto degli agnelli) sono stati presentati come universalmente riconosciuti e accettati, nonchè indiscutibili.
    Michela Pezzarini

  2. Brunella Bucciarelli ha detto:

    Vorrei riprendere alcune riflessioni emerse in questi scambi che mi sembrano particolarmente rilevanti. Marco, ed in parte Barbara, ritengono che il fenomeno dell’acquisto di agnelli possa essere letto come uno di quei comportamenti che rientrano nella “zona grigia”, quella zona cioè dove il giudizio sulle azioni si fa complesso, anche se non incerto. Questo è almeno il significato che ne dà Primo Levi, da cui evidentemente è ripreso il concetto. Credo sia utile allora seguire l’analisi che ne fa Levi, proprio per l’acutezza che la contraddistingue e dunque per comprendere meglio i comportamenti su cui ci stiamo interrogando.
    Quali sono i comportamenti che rientrano nella zona grigia, cosa li accomuna dato che la loro caratteristica è di essere così variegati e difformi fra di loro da indurre un giudizio diverso per ciascuno di essi? Il fatto che si tratta sempre di azioni di collaborazione con chi detiene il “potere”, intendendo con tale termine una forza oppressiva verso altri, un rapporto di sopraffazione e financo di distruzione. Comportamenti di disponibilità che, inoltre, al di là delle motivazioni personali, portano comunque chi li pratica a godere di un privilegio, anche minimo, rispetto agli altri. Chi sta nella zona grigia non detiene il potere, ma in qualche modo presta dei servizi ad esso, lo esercita o lo facilita ricavandone dei vantaggi, sia pur infimi .
    Ora però, secondo Marco e Barbara, ciò che fa si che un’azione sia collocabile in tale zona è il fatto che si tratta di azioni che configurano una qualche forma di prassi collettiva, di pubblicità, insomma che non sono solo comportamenti privati ma che coinvolgono altri, che propongono un’azione comune. Ma nel concetto di zona grigia non c’è traccia di questa differenza; un comportamento è pensabile in tale regione-limite quando attua una forma di scambio con il potere, che sia privata o collettiva. E io credo che in realtà il richiamo alla zona grigia serva a Marco e Barbara solo per attribuire alle azioni di cui parliamo quella caratteristica di collusione, di “collaborare e farsi soci” con l’oppressione che a mio parere non è affatto evidente; per non parlare poi del privilegio a ciò connesso, che mi sembra nel nostro caso del tutto assurdo.
    Se questo uso del concetto mi pare dunque fuorviante, ci sono però due questioni che il richiamarsi ad esso avrebbe aiutato a chiarire.
    La zona grigia indica il fatto che fra le vittime ed i carnefici non c’è mai una separazione assoluta:

    “Solo una retorica schematica può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare…”
    I sommersi ed i salvati, pp.27-28

    È importante essere chiari su questo punto: evidentemente l’analisi di Levi non ha nulla a che fare con una qualsiasi forma di revisionismo, come credo sia evidente a chiunque. L’analisi minuziosa della zona grigia è necessaria per il fatto che se la sua “struttura interna incredibilmente complicata…alberga in se quanto basta per confondere il nostro giudizio”(id. p.29) è proprio questo giudizio, questa capacità di discernere fra prigionieri e custodi, ciò che va ricercato e affermato. Non si tratta di confondere i ruoli, ma di saper capire cosa davvero avviene in quella zona grigia che è sempre presente, in quella complessità che caratterizza tutte le convivenze, perfino all’interno del Lager, dove la divisione sembrerebbe essere più netta. Solo allora una presa di posizione è possibile, ed ogni confusione esclusa.
    Dunque, prima riflessione che la zona grigia ci indica: lo scambio con il potere è sempre presente, nessuno può chiamarsi fuori; per valutare correttamente in quale direzione tale scambio sia orientato bisogna analizzare nel dettaglio ciò che avviene. Ad esempio, Levi riporta il caso di quei prigionieri che svolgevano attività amministrative e che, in virtù di tale loro ruolo, poterono conoscere e in seguito documentare i fatti di cui furono testimoni, nonché aiutare concretamente i loro compagni; in questo caso non si tratta in realtà di collaboratori, ma di “oppositori mimetizzati”(p.32). Non voglio affatto sostenere che sia questo il caso dell’acquisto degli agnelli, ma che, visto l’operare complessivo di questi gruppi (che come ho già sottolineato comprende come momento fondamentale quello di prendersi cura della situazione futura degli animali riscattati tramite una rete di alleanze), le loro azioni andrebbero valutate non fermandosi a principi astratti come lo scambio di denaro.
    La seconda riflessione riguarda ciò che sia Marco che Barbara attribuiscono ai nostri “acquirenti”, che cioè essi indichino l’acquisto come una via, una strategia per l’abolizione degli allevamenti. Mi sembra che Michela Pettorali dia a questo la risposta più sensata e sottile: “50 agnelli non nuocciono alla causa”, all’idea generale e al principio della non mercificazione”. Chi partecipa a queste iniziative non mi sembra abbia mai rivendicato per la propria azione tali grandi disegni; semplicemente, può fare qualcosa (al limite anche solo quella meschina preoccupazione di privarsi di qualche euro) e la fa, fidandosi di altre persone (che spesso conosce) che potranno far trascorrere alle future pecore e montoni una vita si spera gradevole.
    Del resto, perché ogni nostro scambio con gli animali dovrebbe essere un momento di una generale lotta politica per la liberazione? Perché se una relazione non è tale deve essere inquadrata o come un indifferente fatto privato o come qualcosa di nocivo alla causa? Io credo che se quasi sempre un’azione ha una valenza politica, non ha senso pensare tutta la politica come uno scontro guerresco, perché i conflitti passano anche e anzi soprattutto, per relazioni molto più complesse. Vorrei citare nuovamente I sommersi ed i salvati, poiché questa visione della politica ci riporta all’importanza di riflettere sul concetto di zona grigia:

    “Tendiamo a semplificare anche la storia; … questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri. La storia popolare…risente di questa tendenza manichea che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti ai duelli…”(p.24)

    Ritengo, a questo punto, di non dover nuovamente evidenziare che non si tratta affatto di propugnare una pacificazione fra oppressi ed oppressori, ma di capire esattamente i modi d’essere dei rapporti di sopraffazione per meglio uscirne. L’analisi che Primo Levi fa della zona grigia è strettamente legata alla concezione del potere che la accompagna: il potere è sempre presente nell’organizzazione sociale umana e non è detto che sia intrinsecamente nocivo; i rapporti di potere sono essenzialmente molteplici e frastagliati, ad esempio possono contemplare varie forme di retroazione dal basso (o nessuna affatto, come nel caso del lager) e tali diverse modalità del potere selezionano particolari modi di comportamento nei singoli. Se così è,

    “L’ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie. È compito dell’uomo giusto fare guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine”(p.29)

    È a questo punto che Levi introduce il concetto di zona grigia e la disamina paziente di ciò che in essa rientra, dei diversi comportamenti pensabili in essa ma sui quali il giudizio è per ogni caso diverso. Bisogna considerare ciò che le pratiche di cui ci occupiamo producono in concreto, e non mi sembra che privilegiare il punto di vista dell’allevatore sia necessariamente l’ottica migliore per valutare un fenomeno. Il punto di vista dell’animale riscattato, quello di chi, in modo certo poco eroico, cerca di fare qualcosa, non può essere messo da parte in nome della strategia; è invece affermare la priorità di quel punto di vista che dovrebbe essere l’obiettivo della strategia.
    Chi da tempo porta avanti il progetto bio-violenza, dove è reso evidente come quelle prassi che propugnano un allevamento umanitario condividono in realtà lo stesso meccanismo di sopraffazione e annichilimento cui pretendono contrapporsi, sa bene che in questo caso abbiamo davvero la proposta di una via alternativa alla liberazione animale, una proposta mistificante ed insidiosa. Non vedo invece come l’acquisto di agnelli possa essere considerata tale.

    Ripropongo inoltre la domanda che ponevamo nel primo intervento: come giudicate allora il riscatto degli Orsi della luna, o quello degli animali nelle perreras spagnole?

    • Marco Reggio ha detto:

      Ciao Brunella, rispondo a te solo ora perchè solo ora ho visto il commento.
      Dunque, mi sembra di poter condividere tutto quello che dici. Personalmente, non ho usato il concetto di “zona grigia” pensando a Primo Levi, però. Intendevo una cosa più banale, e cioè una zona in cui non si capisce bene se si tratta di atti “privati” (cioè quegli atti che anche il moralista più rigido e ideologico tutto sommato potrebbe ammettere pur nella loro contraddittorietà) o “pubblici”. Nel caso specifico, io non so se ci sia una rivendicazione del gesto con l’indicazione della “via da seguire”; forse non c’è. Dico soltanto che quello che può creare una certa ambiguità è l’uso del social network, che da una parte sembra soltanto un “amplificatore”, per cui chi ha bisogno di raggiungere tante persone per es. diffonde un appello, e dall’altra rischia di sembrare (a Barbara per es.) una piazza virtuale in cui si fanno proclami. Tutto qui. Riguardo al rapporto con il “potere”, trovo preziose le tue osservazioni, e dirò di più: persino nel caso di bioviolenza, anche se il discorso sotteso dalla retorica dell’allevamento “buono” supporta e rinforza lo sfruttamento, quando si entra nella concretezza dei soggetti che se ne fanno carico le cose si fanno più complesse, tanto che troviamo sinceri animalisti che non disdegnano la difesa degli allevamenti sostenibili, o addirittura allevatori “bio” che DAVVERO intrattengono rapporti ricchi e complessi con i propri animali. Di fronte a questi rapporti ovviamente dobbiamo denunciare il fatto che si tratta di rapporti viziati da un rapporto di oppressione, un rapporto di tipo economico asimmetrico, ma non possiamo limitarci a vedere questo aspetto.
      La domanda che poni sugli Orsi della Luna e sulle Perreras apre una questione interessante, soprattutto sulle Perreras. Perchè in effetti molti, se si tratta di cani, ammettono che qualsiasi cosa va bene pur di salvare dei concreti individui; quando si tratta di animali da carne, invece, il giudizio diventa per così dire più “ideologico”. Forse gli animali da reddito, anche per noi animalisti, sono meno “individui” rispetto a cani e gatti? Potrebbe darsi. Al contrario, si potrebbe rivendicare in modo aperto e pubblico il valore delle singole esistenze, come in un certo senso hanno fatto gli attivisti che hanno liberato in questi giorni migliaia di topi dal laboratorio di Farmacologia a Milano.

  3. Agnese Pignataro ha detto:

    Salve Barbara,

    scusandomi per il ritardo, le rispondo sui due punti principali, la questione della classe e quella della relazione tra l’approccio del care e la pratica di acquisto di animali «da reddito».

    Criticare il fatto che l’antispecismo ricalchi la lotta di classe non significa negare che gli animali siano una classe. Ho sostenuto più volte che gli animali lo sono e affermare il contrario mi sembra davvero difficile. Quello che mi sembra criticabile è un presupposto più o meno esplicito dei discorsi antispecisti che consiste nella divisione del mondo in modo binario e manicheo tra amici e nemici, tra sfruttati e sfruttatori, e nell’idea correlata ed ingenua secondo cui bisogna combattere il nemico, entità monolitica che coagula in sé tutte le possibili forme di oppressione. È da questi presupposti che scaturiscono le infinite variazioni sul tema «qual è la giusta nozione di specismo, qual è la giusta strategia per sconfiggerlo», etc. Uno stile di pensiero da movimento operaio dell’Ottocento. Penso che di strada da allora ne abbiamo percorsa parecchia. Oggi sappiamo che non c’è solo la lotta binaria tra capitalisti e proletari, ma esistono molti altri sistemi di oppressione con caratteristiche diverse e che si intersecano in modo complesso.

    Il che si visualizza meglio attraverso un esempio noto. Gli antispecisti amano molto la metafora del grattacielo proposta da Horkheimer. Qualcuno di loro ha affermato che quella metafora è la rappresentazione esatta della società attuale e l’ha interpretata nel senso di una minoranza che detiene denaro e potere schiacciando e sfruttando una maggioranza. A parte il fatto che una tale interpretazione è estremamente semplicistica rispetto alla metafora stessa, quell’immagine in sé non contiene in modo completo tutte le oppressioni possibili: in essa infatti mancano per esempio le donne. Perché? La risposta è semplice: perché le donne sono una classe oppressa diluita tra altre classi, ovvero una classe le cui componenti non hanno un proprio status di classe ma lo ricevono dai rispettivi oppressori (padri e mariti). Ecco quindi che lo schema verticale/piramidale del grattacielo non funziona più, siamo in una dinamica di oppressione orizzontale, diffusa. Lo stesso vale per il discorso dei bambini come classe oppressa dagli adulti (nel caso dei bambini in realtà trovo che tutti gli schemi politici classici siano completamente inefficaci). La rimando poi a un esempio concreto basato su un fatto reale che analizzo nell’ultimo esempio di questo breve testo per mostrare come le visioni a senso unico del potere siano riduzioniste e non fuzionino.

    Spero che ora le ragioni per le quali sono allergica a tutti i discorsi sulle strategie per abbattere lo specismo siano più chiare.

    Per quanto riguarda l’approccio del care: la grande lontananza tra questo approccio e quello che lei chiama «antispecismo politico» l’ho spiegata in un testo in cui rifiuto la nozione di «teriofobia», nozione che era stata proposta proprio sul blog Asinus Novus e che aveva trovato molti consensi nella sua redazione. Se leggerà quel testo penso che le sarà chiaro il perché le relazioni umani-animali si leggono in modo estremamente diverso adottando il punto di vista del care. Sintetizzando al minimo: l’antispecismo politico riduce tutte queste relazioni concrete e quotidiane alla relazione psicotica della società umana con l’entità astratta «animale», che la società intende rimuovere, alienare, espellere; il care invece resta ancorato alla molteplicità, concretezza, contestualità e plurivocità di tali relazioni, interpretandole fondamentalmente come un vivere insieme di umani e animali, in cui gli animali, pur non essendo affatto espulsi o alienati ma ben presenti, sono tuttavia sottoposti a direttrici di potere sbilanciate che vanno indirizzate verso nuovi e più giusti equilibri.

    In questo quadro, la pratica di salvare agnelli acquistandoli può essere letta in modo narrativo, non fermandosi cioè al solo elemento dell’atto di acquisto, reso astratto attraverso il confronto/scontro con un principio altrettanto astratto («non si compra la vita» o altro), ma inserendolo in una storia concreta e vissuta di cui è necessario mantenere lo spessore emotivo e la profondità temporale. In altre parole, come faceva notare Brunella Bucciarelli, bisogna tenere presente che in queste storie può spesso esistere un legame personale tra chi salva e chi è salvato, e non si vede in nome di cosa sarebbe ovvio che questo legame personale non conti assolutamente nulla e debba essere spazzato via dalla forza e dalla durezza adamantina dei principi. Ed anche, come sempre notato da Brunella, che queste storie hanno lunghi sviluppi in seguito all’atto dell’acquisto, sviluppi significativi, centrali, per l’approccio che noi vogliamo costruire, in quanto prefigurano proprio la possibilità di quel raddrizzamento dello squilibrio della relazione umano-animale di cui parlavo sopra. Vale a dire che questo sporcarsi le mani in «trattative con il nemico» è per il momento una condizione necessaria per poter non solo liberare e salvare la vita ad animali sfruttati e condannati a morte, ma anche per inserirli in progetti concreti di convivenza equa tra umani e animali domestici in cui l’elemento di interscambio tra umani e animali, già presente nelle relazioni tradizionali, è depurato dell’uso della forza da parte di uno dei partner che finisce per annientare l’altro. Sono esperimenti inediti e tutti da costruire, per realizzare i quali bisogna per forza riuscire ad ottenere animali, per dono o per acquisto. Ma la testimonianza offerta da questi esperimenti è, socialmente e politicamente, almeno altrettanto significativa – se non di più – di quella offerta dalle persone vegane. Per questo, pur non rappresentando la quintessenza della liberazione animale, ne sono un elemento portante.

    Elemento che viene interamente perso nei discorsi dell’«antispecismo politico», più interessato a corse agli armamenti contro il nemico numero 1, lo Specismo-origine-di-tutti-i-mali, e a prediche generalesche alle povere e ignoranti truppe animaliste, per accorgersi che la vera domanda da porsi è: «come vivere con gli animali?»

    Cordialmente,

    AP


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